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Slow weekend

A Roma piove, più o meno interrottamente, da giorni ed io sono 3 giorni che non esco di casa, bloccata da un’influenzucola dovuta più a stanchezza che a un virus. Tre giorni che non tolgo il pigiama, non spazzolo i capelli, mi lavo lo stretto necessario e mi abbuffo di pastaccini che come sempre mi porta la mia mamma. Mi detesto quando mi lascio così andare e mi lascio sopraffare da eventi che comuni mortali si scrollerebbero dalle spalle in un secondo. Non imparo mai. Tiro sempre la corda, dò il 1000, mi strapazzo e poi cado letteralmente al suolo, sopraffatta da stanchezza mentale, fisica e ansie di vario tipo. Guardo la finestra con le tende nuove che adoro, tutto questo grigio mi è entrato dentro. Ho comunque lavorato da casa in questi due giorni, approfittando solo della pausa pranzo per cadere in catalessi. Quindi non si stacca mai. Inizio ad essere un po’ stanca di un lavoro da cui non si stacca mai, esageratamente. Non è solo un mio modo di affrontarlo, sono circondata da persone e clienti che vivono il lavoro, come fosse la cosa più importante al mondo.

Ora, in questo preciso momento della mia vita, riesco ad accettarlo ancor meno. Cerco di annullare i pensieri e cancellare dalla mente le mail ansiogene immergendomi in vite altre. Che siano serie o libri. In questi giorni sto leggendo molto, ho divorato l’ennesimo giallo scandinavo sognando di vivere in quell’isoletta al largo di Stoccolma. Uscire in barca nel weekend, frequentare il circolo nautico, andare a fare la spesa in bici, sorseggiare vino in una veranda di legno, con vista sull’arcipelago. Anche se poi in queste cittadine accadono sempre un sacco di delitti…

Mi ha incuriosita su instagram la storia di una donna di Sassuolo che due anni fa si è trasferita per via del lavoro del marito in Tennesse. Mi ha colpito una meta americana così apprentemente poco attraente così ho letto tutti i suoi racconti, con la mia solita curiosità mista invidia di chi ha avuto il coraggio di mollare tutto e andarsene. Nonostante i chiari racconti di come questi cambiamenti non siano affatto semplici e tutto rose e fiori. Leggo molte di queste blogger e influencer. Le ammiro e invidio. Se fossi stata meno pigra e indolente forse anche io sarei riuscita a far decollare un blog. Ma come sempre, mi fermo prima.

Poi mi sono buttata a capofitto nell’ultimo libro di Daria Bignardi, il cui stile devo ammettere mi piace molto, incuriosita dal titolo e dal prologo. Ma di fatto parla della lotta di una donna con il cancro e mi sta deprimendo non poco.

Detesto buttare al vento i weekend, specie perché la prossima sarà l’ennessima settimana tosta, ma senza Massi e così deboluccia non ho voglia di fare nulla. Mi manca un sacco, lo invidio un pò perché vorrei essere anche io in viaggio, ma va bene così. Torno ad immergermi in vite parallele e sognare di svegliarmi altrove.

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Roma non fa la stupida

Quanto sei brutta Roma quando piovi. Quando inizi a piagnucolare sin dal mattino per andare avanti, a intermittenza, tutto il giorno.
Sale quell’umidità sin dalle prime ore, con i vetri che si appannano, il freddo che si insinua nelle ossa, il crespo tra i capelli e quella puzza di fradicio e peccati sparsi che risale dalla strada.
Quanto sei triste quando sei così cupa e non ci aiuti. Non ci aiuti a tenere alto l’umore, già provato da stanchezza, stress e inutilità. Non ci aiuti triplicando un traffico già esausto, battendo il tempo con tergicistalli che scricchiolano sopra fogliame marcio e putrido. Sono questi tuoi piagnistei capricciosi a renderti così fastidiosa.
Potresti almeno farlo in privato, di notte, mentre nessuno ti guarda o chi lo fa è perché patisce le tue stesse pene.
E col calore della mia coperta quasi ti cingerei, per calmarti e donarci un domani sereno.
Invece piangi e insisti e forse lo farai anche domani e dal tuo grigio quotidiano è sempre più difficile scappare.

Un lungo inverno

Che non finisce più. Quest’anno, nonostante mi sia sempre fatta portatrice della bandiera della stagione fredda e invernale, non ne posso più. A mia discolpa posso certamente dire che è stato, ed è ancora, un inverno romano di merda. Pioggia battente, umido penetrante e cielo grigio non fanno che toglierci le forze e buttarci il morale a terra.
Tutte le mattine scosto le tende e penso a quei 10, 15 minuti volanti con Holghina, nella “brughiera” Appia, con io che mi congelo, lei che non trova la zolla giusta oppure lo fa apposta, il pelo poi che puzza, le impronte per casa, e già la mattina parte stanca.
Il bunker dove lavoro, al piano terra di un caseggiato di cemento armato, non prende luce neanche d’estate, figurarsi d’inverno. Il gelo arriva da terra e sale su, e dover stare a riscaldamenti spesi causa crisi asmatiche del collega, non aiuta. Ogni sera torno a casa convinta che, ecco, è arrivata. Brividi di freddo, nausea, e giù a impasticcarmi per non rischiare di ammalarmi. Anche se forse a questo punto dovrei lasciarmi andare, fidarmi degli anticorpi o che sto freddo becco si impossessi di me come si deve e chissene.
E’ stato un inizio 2015 tosto, lo immaginavo. Orari di lavoro duri, scadenze, gare, cene in ufficio, riavvio di mille cose e mi sento già così spompata, anche perché immagino almeno altri due mesi così.
Ho rindossato maglioni e calzamaglie che neanche pensavo più di possedere, e ripetutamente perché il mio armadio tende di certo più all’autunnale primaverile che allo skypass. La pioggia da Istanbul non mi ha più mollata, così come il freddo.
Sono qui al locale nonostante ieri sera avessi voglia di dormire dalle 19 ad infinitum. Volevo leggere ma alla fine ho lavorato lo stesso per le cose nostre, per i nuovi corsi, perché fino a marzo è tutta ansia e comunicazione. E colite. Ho gli occhi che mi si incrociano tra password di siti, social, seo, sem e surf.
Sabato scorso, nonostante una settimana da 80 ore lavorative, sono stata ad una full immersion di copywriting e content management. Una folla twittante e hashtaggante. Tanto entusiasmo, tanto potenziale, ma anche tanto… uff. Volere altro, che sta vita digitale è no stress senza sosta né tag.
Comunque, anche il week-end a Londra mi ha dimostrato di nuovo come però non basti dire “me ne vado mollo tutto”, noi italiana siamo alla base della piramide anglosassone, come criceti ci muoviamo orbi dietro a macchine del caffè, friggitrici, casse. E io una vita così, anche se londinese, non vorrei farla.
Mi continua a ronzare in testa un ritornello, “scegli e credici”. Tutto sta a capire cosa.

Un acquazzone ci salverà

Io sono fortunata. Attualmente lavoro, e di questi tempi già è una fortuna, in più a due passi da casa. Ho una macchina, sebbene comporti più costi di una tessera metro, devo percorrere una sola strada, che ogni tanto chiudono per un albero pericolante, una fibra ottica o nuove buche che si riaprono su lavori appena fatti. Ma ecco, sostanzialmente al massimo posso impiegare 30 minuti per andare e tornare. Ma non dimentico un lungo passato da mezzo pubblico. Prima come universitaria, poi come impiegata con l’ansia che anche tardare 5 minuti potesse significare una lettera di richiamo. Mi ricordo le lunghe, lunghissime attese. Gli autobus pieni, che si rompevano fin troppo spesso, i cortei, gli scioperi. Non ho mai dovuto fare la pendolare, questo sì, a parte il periodo che avevo scelto di usare il trenino da trastevere, unico mezzo per raggiungere la metro da monteverde. Ma poi ho optato per svegliarmi ancora prima e tornare sui mezzi, che se possibile era meno peggio. Ma avevo comunque una scelta. Molti, purtroppo, no. Ricordo con piacere però i tanti libri letti, in piedi o le non troppo rare volte in cui riuscivo a sedermi, la musica sempre nelle orecchie e un occhio sempre rivolto all’orologio. Per cui in giornate come queste, davvero, il mio pensiero va a tutte le mie vecchie me, soprattutto alle mie vecchie colleghe, che non solo devono subirsi i disagi di questa città sempre più allo sbando, ma devono viverle col pensiero di quel posto, che non ammette umanità. Perché sì è brutto non lavorare, ma anche farlo con l’angoscia dentro, con la consapevolezza di gettare ogni preziosa giornata in pasto a emeriti imbecilli, non è tanto da augurare. Vi abbraccio. In bocca al lupo per oggi.

Un mondo a righe

Che poi la vita è fatta di scoperte e incontri tardivi. Oggi l’elettrauto sotto casa per la prima volta mi ha fatto capire l’utilità vera delle rigoline disegnate sui vetri posteriori delle auto.
Non semplici e inutili decalcomanie di dubbio gusto, bensì fili elettrici per sbrinare, niente meno.
Peccato che abbia dovuto scoprirlo proprio ora che le mie rigoline sono più scariche di me e hanno deciso di ritirarsi a miglior vita. Magari su un pigiama o un asciugamano. Forse in tal caso avrei saputo apprezzarle di più.

La nuit, la pluie

Stanotte non riuscivo a prendere sonno. Mi capita soprattutto quando torno e mangio tardi e tratta in inganno dalla stanchezza mi metto a letto, ma un esercito di draghi decide di occupare pancia e testa.
Data la notte buia e tempestosa mi ha affascinato ascoltare il rumore della pioggia battente. Protetta sotto il piumone caldo mi immaginavo i posti dove passo di solito pieni di acqua e fango. Ho avvertito un senso di tranquillità e protezione. E poi ho pensato anche alla virulenza delle ultime piogge a Roma e in Italia. Un tempo non pioveva così, con tale impeto e vigore da trovare spesso una città divelta su se stessa. Poi dopo la furia spunta un sole beffardo, come oggi, che mi fa più paura del temporale violento.
Poi mentre mi sentivo al sicuro, mi sono addormentata. Stamattina ho letto della Sardegna. Ho ricordato le mie sensazioni e ho solo potuto immaginare lontanamente la paura dei sardi.
Non sembra andare più bene niente in questo Paese…