In qualsiasi altra capitale – almeno europea – il sabato pomeriggio in metro è un delirio di studenti, artisti che suonano, amiche in spedizione shopping, lavoratori che staccano o attaccano.
Il pomeriggio della metro romana, specie nelle fermate decentrate, è di una tristezza disarmante. Stazioni vuote, dove a dire il vero potresti esser tranquillamente aggredita o scippata e non sene accorgerebbe nessuno, una musichetta triste che rimbomba in banchine vuote. E facce tristi. Facce di gente triste, come forse lo sono un po’io, perché suvvia prendere la metro a Roma non fa fico, non è un servizio che agevola la vita e gli spostamenti degli autoctoni anzi. La metro la prendi se proprio devi, se non puoi farne a meno, se non hai l’auto. Ma se hai dovuto combatterci tutta la settimana, nel week-end te ne stai alla larga.
Così tutt’al più incontri musicisti zighani fastidiosi, quelli che ti chiedono du’spicci, ignari turisti – gli unici che sorridono – o tizie come quella che ho seduta di fronte, avvinghiata in leggins fintopellefintolurex, giacchino fintopellefintopelo, french vistose con quella moda terribile di colorare solo le punte, inverosimilmente lunghe, con strass e cazzetti indecifrabili. Fiati alcolici, che in un vagone umido e semivuoto riempiono e stordiscono e ci obbligano a svegliarci dal torpore.
Per fortuna, è il momento di scendere… e spero di lasciare sto senso di tristezza sul vagone dopo Termini un po’ meno vuoto, a farsi un balletto con i fiumi alcolici.